Tokyo. Naoto Funamura, un ragazzo di 18 anni (minorenne perché in Giappone la maggiore età si raggiunge a 20) viene arrestato con l’accusa di aver ucciso due bambine. La polizia ha l’incarico di difendere la sua famiglia dall'invadenza dei media e dalla pubblica indignazione.
Dal trauma causato da questa aggressione mediatica che potrebbe spingere i parenti al suicidio.
Così i familiari del sospettato, subito accerchiati dalla stampa, vengono separati e l’agente Takumi Katsuura, in crisi con la moglie e tormentato da un vecchio caso finito in tragedia, riceve il compito di prendersi cura della sorella minore del presunto assassino, la quindicenne Saori.
Scelto per rappresentare il Giappone agli Oscar 2010, ”Nobody to Watch Over Me” (Dare mo mamotte kurenai) non è al livello dei migliori film nipponici selezionati negli ultimi anni. Qualcosina in più mi aspettavo. Resta però un lavoro interessante che fa riflettere su alcuni temi importanti.
A cominciare da quella difficoltà di liberarsi da un marchio che non si merita direttamente, ma deriva da quella sorta di responsabilità oggettiva che tende a colpire i parenti stretti di chi viene accusato di un delitto o comunque di un reato grave. Ad alimentarla ci pensano i mass media, di cui il film mostra il lato peggiore. Della serie “è la stampa e non è una bellezza”, un filone più volte sfruttato dal mondo del cinema. Nell’era di internet Kimizuka allude anche ai nuovi media, alla possibile pericolosità del web, incontrollabile mare popolato da blogger squali cinicamente liberi e senza nemmeno quel freno deontologico che dovrebbe guidare chi fa informazione in modo professionale.
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